C’è un qualcosa di familiare nei rumori e nei volti che si affacciano sulla scena dell’Elettra, nell’edizione che Magarìa Teatro ha lungamente elaborato alla ricerca di un senso che non tradisse i contenuti dei testi di riferimento (l’Orestea di Eschilo e Il lutto si addice a Elettra di O’Neill) e che, ad un tempo, fornisse una cifra personale di un lavoro di scavo.

La familiarità che si percepisce nell’Elettra di Magarìa, probabilmente, proviene dall’atmosfera generale nella quale sono immersi i personaggi: questa nostra storia, infatti, si focalizza sulla famiglia e sui nodi dai quali tutti gli uomini sono attraversati dentro e fuori, avvolti in un ‘bozzolo’ dentro cui ogni cosa accade e niente sembrerebbe accaduto, un luogo dove spesso si tessono instancabilmente e, perché no, inconsciamente, trame simili a ragnatele che, a poco a poco, inglobano la realtà fino a nasconderla, a negarla, ad oscurarla.

Elettra, personaggio inquietante e fortemente carico di feroce sensualità, nel nostro lavoro è una ragazza la cui parte è dominata da sentimenti estremi e dall’atroce spinta di un desiderio che ambisce alla sovrapposizione (alla madre, alla sorella, al fratello, al padre), quasi a voler sottolineare l’impossibilità di dare una connotazione univoca a chi, nella famiglia, spesso innesca il dramma o ne è vittima e vendicatore; Elettra è una metafora, la misteriosa icona di una potenza interiore agghiacciante eppure così apparentemente normale e quotidiana.

Il padre di Elettra, Agamennone, è un fantasma ormai tagliato fuori dai giochi, la cui voce e il cui linguaggio soffrono la condizione dell’alterità, della non-essenza, della spettralità; si accontenta di dividere il suo spazio astratto con la figlia piccola, Ifigenia, sua preda e vittima, silenziosa presenza piena di accuse non rivelate o con l’amante Cassandra; ma anche qui Agamennone, come padre, come ricordo di padre crudele e distratto, incombe sul ‘bozzolo’, pur rimanendone malinconicamente escluso, poiché gli intrecci, gli scorni e le battaglie fatte di sguardi e allusioni, è cosa da lasciar fare ai vivi.

Anche il Guardiano, figura preminente sia in Eschilo sia in O’Neill, si dissocia “da loro”, cioè dal clan familiare e osserva da lontano lo sviluppo incalzante degli eventi; nel nostro lavoro il guardiano ricopre, anche, il ruolo del narratore che cerca di fare il punto sulla situazione ogni qual volta la tela s’infittisce.

Quindi Clitemnestra, madre-tipo della tradizione mediterranea, esteriormente solare ed avvolgente, ma intimamente autoritaria e feroce, è occupata ad occultare la verità o meglio, ad impedire che la verità (l’assassinio del marito Agamennone), distrugga il fantomatico ‘ordine costituito’; tutto deve rimanere immutato e se qualcosa sembra dover procurare un cambiamento, occorre occultarlo, insabbiarlo, deviarlo.

Ma a tale piano si oppone non soltanto l’interessato rancore di Elettra, segretamente innamorata del padre, ma anche Oreste, da noi presentato, almeno nella prima parte, come un quasi demente, un ritardato volutamente imboccato e coccolato dalla madre affinché non sappia e non si svegli da un torpore che ne impedisce l’eroismo; ma Oreste, lentamente, riprenderà il bandolo della matassa e, istigato dall’amata sorella Elettra, commetterà il suo crimine storico.

In ogni scena, visibilmente o invisibilmente, si avverte la presenza del Coro, il cui cerimoniale accompagna, rivela e segue il dispiegarsi delle azioni, ma allo stesso tempo esalta, svela e canta le contraddizioni, le ire e le passioni dei protagonisti.

Chi rimane alla fine di tante battaglie? Chi riuscirà a costruire una nuova realtà? Il mistero ci avvolge, anche perché, come è noto, la struttura della tragedia greca possiede un chiaro procedimento dark, non estraneo anche a quello che noi contemporanei denominiamo thriller.